L’equilibrismo della memora: i racconti possono germogliare

Numerose le testimonianze di parenti, nonni in particolare, e di conoscenti che, come tasselli di vita, ricostruiscono la società di quegli anni, fortemente antidemocratica e violenta. Ci invitano, inoltre, a riflettere sui valori umani, come la dignità della persona, la solidarietà e la tolleranza, per far maturare quella sensibilità indispensabile per la difesa dei diritti inalienabili dell’uomo.

“Ero carrista di stanza a Vercelli, ero già sposato. Immediatamente dopo l’armistizio, lasciammo la caserma schierandoci contro i tedeschi, ma fui colpito, fatto prigioniero e condotto a Torgau, vicino Lipsia, nello Stalag IV D. Fui assegnato ai campi di lavoro, scavavo pozzi neri a mani nude e, d’inverno, con indosso solo le mutande, pativamo tremendamente il freddo. Rischiavamo la vita rubando bucce di patate nelle immondizie della cucina, era quello l’unico sostentamento.

Beffardo il destino! Il soldato tedesco che supervisionava l’andamento dei lavori, ben coperto ed equipaggiato, sarebbe poi morto di polmonite.

Noi Italiani eravamo in un lager a parte, isolati dagli internati di altre nazionalità. I tedeschi ci chiamavano con disprezzo “Badoglio”.

E’ parte del racconto di un parente, ascoltato, accolto e custodito con sofferenza, ma fortunatamente tramandato dalla moglie e dai figli. Le testimonianze del singolo, infatti, necessitano di essere condivise per far germogliare quelle storie narrate e farle diventare documenti, quando i testimoni scompaiono.

18 terribili mesi scanditi da sporadiche comunicazioni alla moglie residente a Brindisi: una cartolina del Comitato internazionale della Croce Rossa di Ginevra con cui si informano i familiari della cattura del congiunto, avvenuta in data 9 settembre 1943, e dell’internamento dello stesso nello Stalag IV D. A. kdo. 506; un’altra, proveniente dall’Ufficio di controllo di Delitzsch, in Sassonia, con la quale si comunica il passaggio del deportato a “lavoratore civile”, con relativo numero di matricola, datata 12 agosto 1944.

Se per i soldati italiani catturati dopo l’armistizio, lo status di Internati Militari significava non essere considerati prigionieri di guerra in quanto nemici della Germania e della Repubblica sociale italiana e non godere delle garanzie e delle tutele della Convenzione di Ginevra e della Croce Rossa, il passaggio allo status di “lavoratore civile” nascondeva la realtà del lavoro forzato: ridotti in schiavitù, utilizzati come forza lavoro in condizioni inumane, offesi, denutriti.

Alla richiesta di notizie e di aiuto della moglie, la Croce Rossa risponderà successivamente di essere impossibilitata a farlo.

Lo zio non raccontava spontaneamente gli episodi drammatici vissuti, solo travagliate risposte alle domande di chi voleva conoscere i dettagli di quell’esperienza atroce che suscitava angoscia e incredulità negli ascoltatori.

Il racconto trasformava il suo volto, il suo sguardo diventava malinconico mostrando lo sgomento, mai sopito, di chi ha visto il mostro negli occhi: la guerra.

Quei 18 mesi, dai 22 ai 24 anni, avevano lasciato tracce indelebili nel corpo e nella mente: la fame, a lungo patita, aveva procurato danni permanenti ai denti, il ricordo della disumanità nei campi, dell’isolamento, delle punizioni corporali, provocava ancora tremori alla sola visione di un “tedesco” o al solo udire “quella parola”.

Verrebbe spontanea una domanda: può la memoria portare all’odio?

Una risposta potremmo trovarla nell’ambito del progetto sull’Equilibrismo della memoria e del percorso sulla manipolazione del consenso, fortemente e tenacemente voluti da Katiuscia Di Rocco, responsabile della Biblioteca arcivescovile A. De Leo di Brindisi. In merito a questo, nei suoi incontri con le scolaresche, la dott.ssa Di Rocco riporta la risposta di un internato brindisino, Gaetano De Vita, da lei intervistato nel 2015: “L’odio è un sentimento inconsistente”.

E davvero a nulla può portare l’odio. Affinché sia proficua, la memoria dovrebbe trasmettere conoscenza, che andrebbe conservata, tutelata e valorizzata come ogni altro bene culturale. Solo così non può temere il trascorrere del tempo. Non più un semplice deposito di dolorosi e terrificanti ricordi, ma una ricostruzione efficace e attiva che possa produrre insegnamenti nel tempo e indurre alla riflessione.

Indubbiamente il fenomeno della dittatura non può essere imputato ad un unico uomo, potente demagogo e accentratore, ma è riconducibile ad una realtà più ampia che interessa buona parte del popolo, ben formata, persuasa, e quindi ben disposta. L’uso massiccio della propaganda durante la dittatura favori il consenso ai programmi politici: persuase il popolo italiano che, assoggettandosi totalmente allo Stato, avrebbe avuto glorie, potenza, materie prime e indutrializzazione, ma produsse lacrime e sangue, perdita della libertà individuale e disuguaglianze sociali.

Chi fa la voce più grossa può essere in grado di comandare su una moltitudine di persone, se queste non sanno cosa sia giusto o sbagliato, realtà o illusione. Efficacissime opposizioni ai governi autoritari, potrebbero essere cultura e informazione, straordinariamente rilevanti nella vita democratica di un Paese.

Se queste vengono demolite, stentatamente i cittadini potranno costruire una profonda coscienza critica, ma prevarrà l’egoismo e mancherà la componente altruistica dell’animo umano. E, a queste condizioni, gli orrori potrebbero ripetersi.